sabato 6 luglio 2013

Pèrec e il fantasma dell'identità. Il posto delle patate: il successo

di Gemma Criscuoli e Aristide Fiore

Foto di scena.
[Pubblicato su ROMA Cronaca di Salerno e provincia, 2 marzo 2013, p.27.]
Strofinare forsennatamente patate, spostarle da un recipiente all'altro, inchiodati a un rituale insensato, mentre si rincorre faticosamente il fantasma della propria identità tra brandelli di ricordi. È lo scenario che si presenta in uno dei migliori appuntamenti della rassegna Out of Bounds presso l'auditorium Sant'Apollonia, sostenuta dall'Officina teatrale LAAV e dalla Bottega San Lazzaro: Il posto delle patate di Georges Pèrec, in cui Rosi Giordano dirige la Compagnia Macroritmi (Maria Teresa Di Clemente, Maria Enrica Prignani, Monica Maroncelli, Marco Giustini e Adriano Rosani).
Le cinque figure in scena si trovano al guado tra l'assurdo indecifrabile dell'esistenza, che ingabbia e impone sentieri prefissati, fino a spingerli al parossismo di movimenti convulsi, meccanici, ripetitivi, e una concretezza libera di essere null'altro che se stessa, di cui il noto tubero è espressione. “Le patate sono cose concrete: si possono toccare” ripetono, invidiando ciò che è definibile e chiaro e sembra precluso alla loro condizione, alla quale cercano di sfuggire creando a turno narrazioni per ritrovare se stessi. Come le patate, sono diversi l'uno dall'altro, ma non abbastanza da evitare di confonderli (il pensiero corre alla borghesia). Ciò che dovrebbe liberarli li imprigiona ancora di più (“Siamo incastrati nei ricordi.”) e li isola, perché nessuno si riconosce fino in fondo in ogni racconto, che viene perciò interrotto e il narratore attaccato e messo a tacere. L'unico protagonismo che non viene messo in discussione è quello della patata, che diventa arma, oggetto di gioco, di dissertazione didascalica, di comizio politico e di performance canora, per sottolineare la distanza tra l'incerto (caratteri che non diventano personaggi) e il certo, che può essere però sinonimo di morte, come mostra il materiale affastellato sullo sfondo: cappelli, ombrelli, abiti, bricchi, scarpe e altri oggetti d'uso quotidiano, che creano la grottesca scenografia dell'assodato.
Dinanzi all'impossibilità di avanzare in una qualsiasi direzione, sottolineata da dialoghi surreali (“Ma siamo dentro o fuori?” “Fa lo stesso.” “Siamo dall'altra parte.”) non giova neppure cercare di capire chi siano (e se ci siano) gli altri, qualcuno che osserva, che sa qualcosa di più.
Nel tentativo di superare l'impasse, ricorrono a qualcosa che li ponga al riparo dall'incoerenza, e si ritrovano a recitare l'Amleto, vissuto fino in fondo perché, in quanto storia inventata, deve necessariamente arrivare a una conclusione. Quest'ultima soluzione non è però una via d'uscita: l'unico esito è il ritorno alla situazione iniziale.

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